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Idioti improvvisati guerrieri.

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Cedo e riporto l’ultimo grugnito amplificato da facebook, se mai a qualcuno servisse un altro motivo per restarne alla larga. Era su una pagina dedicata alla difesa delle forze dell’ordine (Paolo Forlani è uno dei poliziotti condannati per l’omicidio). Ma la cronaca la lascio a chi di competenza qui, i commenti a un monologo scritto da Benni, e io -con permesso- vado a vomitare.


Ma i bastardi li vedo bene si, quelli sono ancora al loro posto pazzi di rabbia perchè per una volta li abbiamo smascherati, e non ce lo perdoneranno mai nei secoli dei secoli e allora è guerra, non farmi i tuoi discorsi miti, la mitezza è un privilegio grande ma il dolore la avvelena in un attimo, io esco da quella galera e la città è peggio che mai, la gente cade per terra, parla da sola, vomita e crepa e tutti passano e non hanno visto niente, e si affrettano a dare nuovi eleganti nomi alla loro corruzione, e ogni tanto parlano dell’uomo comune, ipocriti, l’uomo comune che vi piace è stupido e avido come voi, così lo vorreste, un vigliacco che può ammazzare per vigliaccheria, mentre loro ammazzano per necessità, per i loro divini soldi, Lucia, sono loro ora gli estremisti, violenti assassini estremisti dell’ideologia più ideologia del secolo, un’economia più sacra di una religione, più feroce di un esercito, ricordatelo bene con un brivido quando tutto salterà in aria, quando si oscurerà, malattia senza sintomi, caos di geroglifico incomprensibile e voi sempre più crudeli informati impotenti in mezzo alla strada, e chi raccoglierà i frammenti allora, gli oggetti, i rottami, magari ci fosse qualcuno, magari ci sarà davvero Lucia, questa è la speranza e intanto brucio e non c’è nesun patto da firmare nè col diavolo nè con la rassegnazione […] questo è un sentiero per comici spaventati guerrieri e io non voglio nè vincere nè perdere, solo che tu mi ricordi e dopo che mi anneghino nello zero di quelle medicine e mi chiamino come vogliono e tornino a raccontare le loro storie, non sono vere, manca metà, tu lo capisci cara, almeno tu e allora scendi per favore. 

dal Monologo di Lee – Comici spaventati guerrieri – S. Benni

Boris Pil’njak, “L’anno nudo”

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(questo post è comparso anche su Tonno che fuma)

Prima di incominciare questa scheda, urge una premessa. Chi scrive non ha certo pregiudizi verso ciò che si dice “arte contemporanea”, vale a dire il multiforme insieme delle manifestazioni artistiche che, a partire dai primi del novecento – riassumendo per sommi capi – ha veicolato l’immagine di un mondo in crisi nei suoi più profondi assunti filosofici e spirituali. E’ inutile sottolineare il ruolo decisivo di questa “revisione di valori” nello sgretolare le forme d’arte più consolidate dalla tradizione, fossero esse nella musica (dove Schoenberg, con la cosiddetta “emancipazione della dissonanza”, decretò la fine della tonalità), nell’arte figurativa (basti pensare alla nascita dell’astrattismo) o nella letteratura (valga come esempio su tutti un’opera come Ulysses di James Joyce).
E’ quindi scongiurato il rischio di una lettura con il paraocchi, che rifugge schifata qualsiasi forma di scrittura apparentemente non riconducibile ai canoni tradizionali.
Si è però molto perplessi nel giudicare romanzi come Golyj god/L’anno nudo di Boris Pil’njak. Le recensioni disponibili su internet sono discordi nel valutare questo romanzo dei primi del novecento russo: c’è chi lo osanna come un capolavoro dimenticato e chi invece lo cestina senza appello. Come porsi allora davanti a questo lavoro? Soprattutto, vale veramente la pena di liquidare sbrigativamente la faccenda in un senso o nell’altro?
Innanzitutto, vediamo di fare un po’ d’ordine e di identificare ciò di cui stiamo parlando. Boris Pil’njak (1894 – 1937) viene annoverato dalla manualistica in quella serie di autori che nella neonata URSS, a cavallo tra l’età di Lenin e i primi anni di quella di Stalin, offrirono, in tempi e con modalità differenti, un’immagine della realtà diversa da quella del cosiddetto “realismo socialista”: si era infatti venuto a creare un forte controllo sulle espressioni artistiche da parte dello stato, che si preoccupava di soffocare quanto fosse in disaccordo con le principali direttive ideologiche dettate dal Partito. Tra gli “scrittori maledetti” che subirono una forte censura e/o damnatio memoriae e furono costretti a venire a patti con la realtà (in termini di autocritica o esilio forzato), vengono annoverati nomi illustri come Esenin e Bulgakov, oltre a personaggi meno noti al pubblico occidentale come Zamjatin (autore di My/Noi, romanzo precursore del genere distopico) e appunto Pil’njak.
Ma veniamo al romanzo: di cosa parta L’anno nudo? L’anno cui allude il titolo è il 1919: siamo nel periodo di guerra civile immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, in una terra, la profonda Russia continentale quasi a ridosso del Caucaso, segnata da lotte intestine tra varie frazioni politiche (bolscevichi, anarchici…), miseria, carestie. Pil’njak dà una lettura profondamente pessimista di questa situazione politica e sociale: al crollo delle antiche certezze dello zarismo non è corrisposto nella società un altrettanto rapido riorientamento valoriale verso il bolscevismo, e ciò si deduce dal senso di incertezza, dal sentimento di inazione e di impotenza verso la realtà che pervadono tutte le figure del romanzo. A ciò si aggiungano alcune considerazioni provenienti dalla voce autoriale, che compie un’importante glossa sull’annosa questione identitaria russa: nella Russia della guerra civile si respira un disorientamento forte, una frammentazione ulteriore in un’autocoscienza nazionale strutturalmente scissa tra contraddittori sentimenti di appartenza all’Europa, all’Occidente (inteso come categoria culturale di civiltà, lumi, progresso, potenza coloniale) e all’Asia, all’Oriente (il riferimento è sempre stato, nel pensiero russo, al presunto regresso dovuto al plurisecolare dominio imposto alla Russia dai Mongoli dell’Orda d’oro). La Rivoluzione avrebbe così incarnato, stando alle parole di Pil’njak, le primordiali forze asiatiche della Russia, riportandola perciò in un’inedita posizione di forza e potenza, prima che davanti agli altri stati, davanti ai propri fantasmi storico-identitarie.
Ma al di là delle considerazioni che potremmo considerare a vario titolo ideologiche, di cosa parla precisamente il romanzo? Quali vicende ci offre l’autore? Ebbene, è impossibile dire che L’anno nudo abbia una trama. Manca quello che i formalisti avrebbero definito sjuzhet, ovvero un intreccio di eventi delineati all’interno di una sequenza che ha sempre un capo e una coda. Mancano in sostanza delle vicende sufficientemente ben delineate da essere suscettibili di uno sviluppo letterario, e quindi di essere lette. Siamo davanti ad un mosaico eterogeneo di storie personali: nella città di Ordynin, sfondo su cui viene proiettata la costellazione di personaggi ed eventi proposta dal romanzo, compaiono nobili decaduti, rivoluzionari delusi, anarchici, malati terminali con aspirazioni suicide. A legare le loro storie personali, abbozzate velocemente, irregolarmente eppure in modo abbastanza vivo, giunge il costante e martellante riferimento alla Rivoluzione d’Ottobre, vera e propria ossessione che percorre il romanzo da cima a fondo.
Manca qualcosa. La moltiplicazione vertiginosa delle figure, degli “attori” all’interno di un romanzo, è un procedimento che normalmente richiede un dominio sicuro della materia letteraria da parte dello scrittore. Valga come esempio in questo senso Il maestro e Margherita di Bulgakov, dove la comparsa di una messe di figure eterogenee riflette la caoticità di una realtà dove naturale e sovrannaturale si intrecciano continuamente, senza però che la narrazione perda in senso complessivo di coesione ed unità. Non si può dire che altrettanto avvenga ne L’anno nudo, dove la moltiplicazione dei piani narrativi non avviene con la stessa felicità che contraddistingue il romanzo di Bulgakov. Eppure la lettura restituisce una certa sensazione, almeno ad una prima lettura, di modernità, di un quadro della società post-rivoluzionaria russa complessivamente vivido: permane però, alla fine del romanzo, una sensazione di amaro in bocca, quasi la narrazione non avesse avuto un esito appagante.
C’è da dire infine che, mentre romanzi come Il maestro e Margherita possiedono una forza che trascende le condizioni concrete di creazione dell’opera, altrettanto non avvenga ne L’anno nudo, strutturalmente e tematicamente legato a doppio filo alla Rivoluzione: se si vuole considerare un romanzo un capolavoro, bisogna che questo sia in grado di offrire messaggi validi al di là delle situazioni storiche contingenti riproposte nella narrazione e spesso, come in questo caso, coincidenti con le “quinte” del romanzo.
Insomma, probabilmente la verità nei giudizi su questa opera di Boris Pil’njak stanno nel mezzo. Ad ogni modo, se volete toccare con mano, recentemente l’opera è stata riproposta da UTET, dopo una prima pubblicazione Garzanti nel 1965. A sostanziale parità di traduzione e di prezzi, è quasi consigliato l’acquisto sul mercato dell’usato dell’edizione Garzanti, che ha una sovracoperta decisamente più intrigante dell’anodina brossura UTET.

Sì, io sono lettore!

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Una volta, quando andavo al liceo, avevo coniato una frase. Diceva qualcosa tipo:

L’intelligenza finisce lì dove inizia una carica istituzionale.

La questione è semplice. Hanno fatto una legge stupida che fissa il tetto sugli sconti (click). L’hanno approvata perché secondo loro tutela gli editori. Tutelano cioè quelle persone che stampano carta che qualcuno dovrebbe leggere.

Il problema però è che chi legge è oramai peggio del panda ascolano. E’ una razza in via d’estinzione. Ed allora per incentivare la lettura si alzano i prezzi.
Un po’ come quando per incentivare la FIAT misero la panda a 25.000 Euro, no? Perché pagandola di più si tutelano i concessionari che non è che vendano benissimo.

Sono arrabbiato e moltissimo. Inoltre sono fermamente convinto che questa legge non serva niente. anzi servirà a far comprare meno libri a chi li comprava, quei pochi che li compravano, non incentiverà niente e nessuno.

Ah, ma forse si voleva aiutare qualche parlamentare a guadagnare di più e a dire ad Amazon che ha fatto benissimo a venire in Italia per ultima, perché tanto il nostro è un mercato stupido: mica ci si mangia con la divina commedia!

Per non parlare di pirateria ed autoproduzione. Non la finirei più, magari ci ritorno su!

F. Dürrenmatt, M. Frisch: “Corrispondenza”

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(questo posto è uscito, con piccole modifiche, su Il Tonno che fuma)

Corrispondenza  raccoglie il carteggio epistolare tra i due numi tutelari della letteratura svizzera contemporanea, Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch, corredato da un bellissimo apparato critico a cura di Peter Rüedi (edizioni Casagrande).

Questo libro colma, almeno parzialmente, una lacuna nel mercato editoriale italiano: almeno che io sappia, non esistono monografie in italiano su questi autori. Non mancano i saggi che focalizzano singoli aspetti della loro produzione, anzi, direi che esistono degli esempi veramente edificanti, come alcuni saggi delle raccolte Il romanzo tedesco del novecento, a cura di Cesare Cases (uno dei numi tutelari della germanistica italiana) e Costruir su macerie di Maurizio Pirro (studioso molto più giovane, ma di solidissima preparazione e di raffinata caratura). Mancano però contributi che ritraggano a tutto tondo i due “numi tutelari” della letteratura elvetica del novecento e che uniscano ai meri dati biografici un solido inquadramento nell’ambito della cultura svizzera e tedesca in generale.

Bisogna essere sinceri. L’epistolario di Frisch e Dürrenmatt soffre di due grandi difetti: dimensioni ristrette e alternanza di periodi di contatti frequenti ad altri, a volte molto lunghi, di silenzio. Questo costringe spesso a leggere tra le righe, ad interpretare lettere a volte talmente stringate da non riuscire a capire di che cosa si stia parlando. Peter Rüedi, il curatore, ci aiuta da una parte tramite una tavola sinottica che mostra in parallelo vita ed opere di Frisch e Dürrenmatt, dall’altra con un apparato di note molto preciso, ricco di puntuali riferimenti sia ai corpus creativi che alla ricezione da parte della critica.

Il vero punto di forza dell’apparato di Rüedi è però un saggio introduttivo che, a parte qualche piccola prolissità, è di eccellente fattura. In sintesi, questa lunga prefazione demolisce il luogo comune che voleva Frisch e Dürrenmatt come un’entità indivisibile,  un equivoco – nato in Germania e poi diffusosi a macchia d’olio – opera di critici che accorpavano senza tanti riguardi i due personaggi, indicandoli come unici personaggi degni di nota nella realtà culturale svizzera; una Svizzera percepita da molti come provinciale, isolata, sterile: Schweiz als Gefängnis, la Svizzera come prigione, ebbe modo di dire lo stesso Dürrenmatt in un suo celebre discorso tenuto poco prima di morire.

Se è vero che Frisch e Dürrenmatt erano accomunati, oltre che da stima reciproca, anche da una comune insofferenza per la Svizzera contemporanea – che, risparmiata dalla seconda guerra mondiale era sostanzialmente rimasta fuori dal procedere storico, perdendo una grande occasione per costruire una forte identità nazionale – , è anche vero che il loro rapporto fu costellato di innumerevoli alti e bassi. L’amicizia tra queste due grandi personalità è stata segnata da innumerevoli incomprensioni, da provocazioni più o meno aperte, da una competizione non sempre sana in cui giocavano un ruolo non secondario molte istituzioni culturali svizzere (penso ai teatri stabili di Zurigo, primi anni ’50, e Basilea, fine degli anni ’60) e cui molti intellettuali tedeschi assistevano in qualità di spettatori non sempre entusiasti e schierati apertamente da una delle due parti (mi viene in mente Uwe Johnson, che intrattenne una lunga corrispondenza epistolare con Frisch e non mancò di segnalare all’amico l’insensatezza delle varie querelle con Dürrenmatt).

Rüedi, forte di una conoscenza capillare di Dürrenmatt e di una dichiaratamente meno forte, ma comunque significativa, di Frisch, racconta questa serie di eventi collocandoli nella scena culturale svizzera del dopoguerra e facendo emergere due ritratti molto diversi, che fanno effettivamente a pugni con l’immagine del “binomio di ferro” e della perfetta consonanza tra Frisch e Dürrenmatt: lucido e distaccato il primo, forse più geniale ma intimamente più tormentato il secondo. Tutto l’apparato, comunque, è teso a demolire il luogo comune di un’amicizia di ferro. Io e Dürrenmatt siamo condannati ad essere amici, confessò Frisch in un’intervista televisiva del 1961 rilasciata a Corinne Pulver: forse già sentiva il peso degli attriti e presagiva la fine che sarebbe arrivata venticinque anni dopo, con una commovente lettera da parte di Dürrenmatt che chiude la raccolta di cui vi ho appena parlato.

In conclusione, se siete interessati alla letteratura tedesca contemporanea fate un salto su BOL o IBS e comprate questo libro. Vedrete che saranno soldi ben spesi.

Cosa tiene accesa l’abat-jour

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Il tempo scarseggia per leggere un libro, figurarsi se ne sprecherei per leggere una recensione. O addirittura per scriverne una. Inoltre, io giudico i libri dalla copertina e i monaci dagli abiti.

Per questo non avrei mai comprato “Cosa tiene accese le stelle“, sebbene il titolo mi avrebbe incuriosita. La liscezza, la lucidità e una veloce lettura dell’aletta mi avrebbero costretta a riporlo nello scaffale dopo pochi minuti, per giunta sbuffando.

L’altra sera avevo solo voglia di accendere l’abat-jour, tenere la finestra aperta, sfogliare qualche pagina e pensare che tra un po’ è vacanza. Così, tra gioielli, biglietti di un concerto, un meraviglioso mappamondo, e altri regali di laurea ancora da scartare, la bimba astronauta sulla copertina alla fine mi ha persuasa.

Mario Calabresi, direttore de “La Stampa”, ha fatto del luogo comune “si stava  meglio quando si stava peggio” il fulcro delle 144 pagine di cui è autore. Lo ha fatto con eleganza e, fortunatamente per me, con meravigliosa scorrevolezza.

Alle prime citazioni banali, lo ammetto, ho sentito un’irrefrenabile voglia, non tanto di uscire a bere una birra (chè quello è ovvio), quanto di accendere la tv e guardare una replica di Amici 1. Ma poi mi sono accorta che regalava diversi spunti di riflessione.

Ho chiesto spesso, a chi mi ha poi regalato il libro, se presto o tardi dovrò scegliere tra un biglietto aereo di sola andata o un lavoro che non è quello che, da poco, ho iniziato a sognare (sarò anomala, ma da bambina non sognavo di lavorare). Discorsi  degni di 3 ore di servizio su Report. Discorsi di cui Calabresi è stufo, e ha deciso di raccontare la storia di alcuni italiani che “ce l’ hanno fatta”, in tempi ancora più bui, senza lagnarsi.  E mi ha regalato un’incantevole lettura.

Leggendolo non ho scoperto nessuna grande verità, tantomeno ho trovato nell’ultima pagina un contratto a tempo indeterminato da firmare e inviare in carta bollata. Però ho pensato positivo, indipendentemente dal periodo storico, il governo al potere, e il tasso di disoccupazione attuale.

E poi mi ha ridato la voglia di leggere.

Così domani vado a comprare un romanzo.

Evgenij Zamjatin, “Noi”

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Tempo fa, con il buon Mistake, si parlava di romanzi distopici, di quei romanzi, in altre parole, che descrivono vere e proprie realtà da incubo: così come l’Utopia di Tommaso Moro dipinge una immaginaria realtà politica, sociale e culturale ideale, così i grandi romanzi distopici del novecento – penso a 1984 e alla Fattoria degli animali di Orwell, ai romanzi di Huxley, a Fahrenheit 451 di Bradbury – ci parlano di stati ugualmente non esistenti, che però risultano indesiderabili da ogni punto di vista: non è un caso che, oltre al termine “distopia”, si adoperi anche il più esplicito “cacotopia”, di area semantica affine, che etimologicamente denota un “brutto luogo”.
In ogni mercato editoriale esistono dei veri e propri prodotti dimenticati, libri scomparsi dalla circolazione per non aver avuto grande mercato: è il caso di un romanzo russo che viene accreditato da molti come il capostipite delle distopie letterarie del novecento, vale a dire “Noi” di Evgenij Zamjatin, autore sovietico che, dopo aver partecipato con entusiasmo alla Rivoluzione d’Ottobre e dopo un brillante esordio come scrittore, finì per diventare inviso alle gerarchie del PCUS (tant’è che “Noi” uscì dapprima all’estero, ovviamente in traduzione).
“Noi” fu pubblicato per la prima volta in Italia qualche decennio fa: lo tradusse Ettore Lo Gatto, illustre capostipite della slavistica italiana del secolo scorso. Per alterne vicende, “Noi” – che all’epoca, se non ricordo male, usciva per i tipi di Feltrinelli – non venne più stampato e sopravvisse in pochi esemplari, conservati perlopiù da ben fornite biblioteche universitarie. Pochi anni fa un piccolo editore milanese, Lupetti, ha avuto la brillante idea di “resuscitare” questo romanzo e di pubblicarlo in una nuova traduzione, inaugurando una collana di capolavori portati a nuova vita dall’emblematico titolo “I rimossi”.

Evgenij Zamjatin, "Noi"

La copertina del romanzo.

La società da incubo che Zamjatin ci mette davanti è altamente spersonalizzante: nello “Stato Unico”, immaginaria entità politica del futuro sorta dopo una guerra globale durata duecento anni, il singolo non esiste come individuo, ma solo come piccola parte di un tutto, lo “Stato Unico” appunto. In una realtà dominata dall’idea di una felicità definibile matematicamente, a costo dell’assoluto annichilimento della volontà e del sentire individuali, le persone sono identificate non con nomi e cognomi, ma con numeri, e il ruolo di ognuno è rigidamente stabilito dalle cosiddette “Tavole della Legge”, che altro non sono se non una rigida applicazione dei principi del taylorismo.
Di più non voglio anticipare. Se è vero che “Noi” non raggiunge probabilmente la felicità artistica, ad esempio, dei grandi lavori di Orwell, è comunque chiaro che ci troviamo davanti ad un meccanismo narrativo di qualità, che appassiona il lettore e che lo tiene costantemente inchiodato alla pagina, nonostante alcune piccole legnosità rinvenibili soprattutto nella figura del protagonista, narratore in prima persona che racconta sotto forma di diario la realtà in cui vive.
Peccato che l’editore Lupetti non goda di una distribuzione capillare sul territorio italiano: il suo catalogo, e quindi anche “Noi”, è comunque ordinabile su internet (www.lupetti.com).

Chimica in versi

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Chi scrive, pur avendo avuto da sempre una netta preferenza per le materie umanistiche, ha grande rispetto per la scienza, o meglio, per essere più precisi, con quelle che vengono chiamate MM.FF.NN. Pensate un po’, avevo pure fatto lo scientifico!

Ora studio tutt’altro, ma il rispetto e un minimo di interesse per l’ambito scientifico mi sono rimasti. Leggo Le Scienze, mi informo su internet e cerco qualche titolo piacevolmente divulgativo (ma non banale) che mi rinfreschi alcune nozioni. Mi è capitato tra le mani, di recente, un libro intitolato “Chimica in versi”, di Alberto Cavaliere, edito da Mursia.

Leggenda vuole che l’autore fosse uno studente di chimica all’università e che, al primo tentativo di dare l’esame di chimica generale, fosse stato rimandato alla sessione successiva. Per imparare la chimica, che gli era fondamentalmente indigesta, pare che Cavaliere abbia composto una raccolta di versi – tutti rigorosamente in rima baciata o incrociata – per mandare a memoria le principali nozioni di chimica sia inorganica che organica. A guisa d’esempio, riporto un passo del capitolo intitolato Idrocarburi non saturi etilenici.

Se prendiamo ad esempio il propano,

CH3-CH2-CH3,

e un idrogeno solo stacchiamo

da ciascuno dei primi due C,

saturandosi allora a vicenda

le valenze del gruppo in esame,

s’ha un composto ad un doppio legame,

che più saturo adesso non è.

Intendiamoci: la raccolta, pur ineccepibile dal punto di vista contenutistico (impressione confermatami da un amico chimico) è qualitativamente discontinua. Il frequente e tutto sommato casuale ricorso agli enjambement, cioè a frasi che eccedono la misura del verso, rende la lettura ad alta voce – o il mandare a memoria – abbastanza difficile: il ritmo irregolare a tratti potrebbe infatti risultare disorientante, se non cacofonico. Onore però alle scelte lessicali, che dimostrano un vocabolario discretamente ampio e soluzioni ricche di inventiva che risolvono rime oggettivamente non facili (provate a rimare parole quali ossidrile, etile, ossiacido, ossalico… Cavaliere ci riesce perfettamente! Personalmente non ci sarei riuscito con altrettanta facilità).

A questo libro va il merito di avermi riavvicinato alla chimica, con cui ho avuto un rapporto a fasi alterne: il ricordo più recente è quello di aver strappato le pagine del libro di chimica una per una dopo il liceo. Cosa non combina la frustrazione! Azzardo però che se gli studenti delle superiori avessero tra le mani un bigino in versi del genere, probabilmente l’apprendimento di dati per loro apparentemente aridi e inutili sortirebbe tutt’altro effetto…  una forma originale di mnemotecnica e contemporaneamente un simpatico lenitivo per le sofferenze dello studio!

E non disse nemmeno una parola

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Questo libro è la prova più lampante che un autore può scrivere di una storia qualunque in maniera eccellente per farla diventare bellissima. Basta, al pari di una pietra importante, collocarla su uno sfondo che non le faccia solo da contorno, ma che le permetta di acquisire forza e ne delinei meglio i tratti.

Il qui presente Tonnochefuma è un germanista con i fiocchi e sicuramente darà i suoi dettami tecnici circa questo libro di Boell. Io mi limito a dire che l’ho trovato, forse più del suo “opinioni di un clown”, stupendo. E’ di una tale drammaticità e di una tale struggente dolcezza che una storia abbastanza comune, raccontata da persone povere e disperate, diviene una critica feroce e spietata a quella che è la società tedesca del secondo dopoguerra.

La forza di una donna che nonostante la perdita della propria dignità (essendo quasi ripudiata da un marito) a causa della povertà riesce a mandare avanti ciò che resta della sua famiglia, a non perdere la fede, a non abbandonare se stessa e a riconquistare quel marito che, non sopportando il peso opprimente di una vita senza futuro, preferisce vivere nei sobborghi da vagabondo ed ubriacone.

E’ la storia degli alberghi di ultima classe che raccolgono i sogni infranti dei poveri e dei disperati, della borghesia dalla lingua spietata e lussuriosa e della gioia di una colazione in una tavola calda a poco prezzo.

Da avere assolutamente!

Ray l’uomo del futuro

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Il genio sta nel capire le cose prima degli altri. Non c’è dubbio allora che Bradbury sia un genio.

Non ha scoperto nessun teorema di Geometria differnziale o di Teoria dei Gruppi, non ha trovato nessuna formulazione alternativa al principio di D’Alambert o alle leggi di Maxwell, non è nemmeno interessato alla dodecafonia come Schoemberg, eppure è stato un grande.

Aveva capito e predetto i nostri tempi meglio di chiunque altro e ce l’ha anche detto senza tenersi tutto per sè, regalandoci alcune tra le pagine della letteratura più belle (sicuramente nel suo genere, ma mi azzarderei a dire in assoluto), consegnandoci una visione della nostra società tanto assurda quanto tristemente attuale. Lo ha fatto circa 60 anni fa.

Prima che l’uomo si facesse due passi sulla luna, lui ci consegnava una colonizzazione di Marte in grande stile.
Prima che la cultura scemasse sino a diventare un optional, lui ci narrava la distopia di un mondo senza libri e colonizzato da pareti-TV.

Se non avete letto nulla è mio consiglio di procurarvi qualcosa, fortunatamente da noi non è ancora un reato!